Thomas Bialas, futurologo, giornalista, innovatore, formatore e conferenziere aiuta imprese, istituzioni e manager a ripensare il proprio ruolo e futuro.
Per Cfmt (Centro di formazione di Confcommercio e Manageritalia) è responsabile dal 2010 del progetto “Future Management Tool”, piattaforma multidisciplinare che distilla e anticipa il futuro e che fornisce strumenti per riconoscere e gestire i cambiamenti; è inoltre ideatore e curatore del “Dirigibile”, inserto del mensile “Dirigente” di Manageritalia.
Lo abbiamo incontrato nel corso della 2° edizione del Forum delle Aziende Altoatesine organizzato da Würth Italia per discutere di digitalizzazione delle imprese.
Che cosa significa essere un futurologo?
Parafrasando il noto motto di Jacques Séguéla “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello” rispondo “Non dite a mia madre che faccio il futurologo … Lei mi crede un astrologo”. È un mestiere strano che possiamo definire l’arte della lungimiranza (tecnicamente per le imprese foresight management) o se preferite una metadisciplina che va oltre le singole discipline. Curiosamente il futurologo studia il passato giacché è l’unico tempo che esiste: il futuro non esiste ancora e il presente finisce in ogni istante. “Studia il passato se vuoi prevedere il futuro” è infatti uno dei famosi insegnamenti attribuiti a Confucio. Perché alla fine si studia ciò che è avvenuto per indovinare l’avvenire. Studiare il futuro significa dunque cogliere mutamenti appena accennati, segnali incerti, tendenze confuse e interpretarne il senso con scenari probabili o desiderabili. Una cosa però è certa: nessuna impresa può più permettersi di barricarsi in casa perché quando il futuro bussa alla porta è già tardi.
Lei sostiene che la rivoluzione digitale sia già avvenuta e terminata da almeno una decina di anni. Davvero non si vede nessun’altra potenziale rivoluzione all’orizzonte?
È da più di dieci anni che tutto va avanti con lo stesso identico motto “ tutto quello che si può digitalizzare verrà digitalizzato, chi lo capisce sopravviverà. Gli altri verranno digitalizzati via.” È tutto molto semplice: quello che vediamo all’opera sono continue declinazioni della digitalizzazione. Poi c’è il discorso più ampio della automazione spinta (compreso quella della conoscenza) o meglio di rendere tutto artificiale compresa la gestione delle imprese e della vita quotidiana. Non chiamo tutto questo intelligenza artificiale perché non sono così stupido da confondere le cose. Ma certamente il dominio delle macchine (software cognitivi e non) è una rivoluzione o guerra in corso.
Tecnologia e digitalizzazione: esistono miti da sfatare?
Tantissimi in realtà. Media, pseudo guru e scienziati invasati e tecnoeuforici hanno elevato la tecnologia a mito investendola di una sacralità divina a cui inchinarsi. Il digitalismo è l’ideologia che simula dunque inganna. Certo lo fa con grande seduzione. “Siamo qui per cambiare il mondo e lo faremo alla grande” si sente dire ad ogni contest per startup nella magica Silicon Valley. Tutti mentono, anche i mentor compiaciuti. Qualsiasi boiata viene pomposamente “pitchata” con l’aureola marchiata Steve Jobs: “ora tutto cambia di nuovo”. Spesso non cambia proprio nulla e spesso le soluzioni risolvono “urgenze” che nessuno si è mai sognato di avere tipo ora grazie a un’app puoi localizzare il pesce che vuoi pescare, certo in un mare dove galleggia un enorme continente di plastica, ma che importa, qui è tutto così dirompente, colorato (vedi Google) e casual. Cosa non casuale. Non puoi infatti essere cattivo vestito così. Il Diavolo veste Prada. Jesus Christ Superstar invece veste semplice e guida un pullman sulle cui fiancate campeggia grande e grosso la scritta “Have a great day” (esiste, giuro). Il miracolo è tutto qui. Nella moltiplicazione delle promesse di un mondo migliore, che migliore non sarà. Sarà il solito mondo fatto di ricconi e straccioni, di privilegi e diseguaglianze, di consumi e sprechi, solo molto più casual e colorato e magari con una nuova app per inviare baci realistici via smartphone (si chiama kissenger).
Si teme sempre più che intelligenze artificiali e automazione conducano alla perdita di molti posti di lavoro. È una preoccupazione inutile?
Preoccuparsi è utile ma occuparsi d’altro è ancora più utile. Voglio dire occuparsi di cose che le macchine proprio non fanno e mai faranno. Il problema è la propaganda. La macchina, che da quando gira per le imprese con lo stemma AI (artificial intelligence) in bella vista non di rado riesce a prendere per il naso anche i manager più smaliziati. L’intelligenza artificiale è in voga, e i contenuti automatizzati in pieno mainstream, supportati da uno storytelling senza precedenti e gonfiati dai media bisognosi di sensazionalismo a buon mercato (come scrisse il grande Karl Kraus: “Non avere un pensiero e saperlo esprimere: è questo che fa di qualcuno un giornalista”). Nessuno sospetta che sia puro marketing e nessuno si prende la briga di approfondire seriamente il tema. Eppure bisognerebbe. A oggi la scienza non è neanche vagamente riuscita a capire e spiegare l’intelligenza umana figuriamoci a simularla. Le persone pensano, le macchine no. Fine del discorso. Poi c’è il discorso dei posti di lavoro: l’accelerazione tecnologica porterà metà delle attività a essere automatizzabili. Plausibile ma non lo sappiamo ancora. Ma una cosa la sappiamo, volendo: che va ridisegnata una civiltà con nuove utopie e nuove regole di convivenza con una nuova economia che si libera del concetto di lavoro rivolto alla produzione di beni e servizi. Un lavoro che genera risultati non più per forza economicamente utili ma, per esempio, collettivamente e socialmente utili. Ma qui servono politici visionari e “liberi”.
Investire nelle tecnologie o essere investiti dalle tecnologie?
Né l’una né l’altra. Le tecnologie devono investire in noi o meglio essere a supporto delle nostre decisioni e della nostra Weltanschauung, qualunque essa sia. Vale anche per le imprese che devono solo decidere quali tecnologie (l’importante conoscerle in profondità tutte senza farsi vendere fumo negli occhi dai piazzisti high tech) sono utili per quello che vogliono fare. L’uomo deve progettare la sostanza (il contenuto) mentre la tecnologia deve conferire solo la forma e il supporto (big data) alle decisioni.
Il concetto di industria si evolve: lei parla di mindustry. Che cosa significa?
Il nuovo mondo non può essere gestito da cervelli a vapore, insomma quelli della civiltà industriale fordista. La nozione di industry 4.0 ci porta su una strada sbagliata. Se fossimo veramente preparati a quello che sta per accadere, allora dovremmo chiamare questa “cosa” 1.0 (un nuovo inizio) e non 4.0. Fabbrica (industry) non è più la parola adatta per raccontare la trasformazione in atto. Provocatoriamente ho creato un neologismo che si focalizza simbolicamente sulla vera rivoluzione di una impresa tutta mente e niente braccia: mindustry (mente + industria), un nuovo mindset per ripensare il futuro dell’impresa oltre le categorie primario, secondario e terziario. Una nuova impresa decentralizzata, intelligente, cognitiva, adattiva, predittiva e innovativa. Mindustry come futura economia della conoscenza. Un luogo dove industriarsi a cambiare. Quindi non metto in discussione le tecnologie e soluzioni di industry 4.0 (che ci sono) ma l’approccio mentale e la mancanza di visione.
Lei è anche un consulente: quali consigli darebbe alle imprese di oggi?
Troppi (consigli) quindi non posso rispondere se non con un monito generale. Troppo spesso l’attenzione delle imprese è rivolta, quasi in modo maniacale, alle tecnologie e alle conseguenti (presumibili) innovazioni in termini di prodotti e servizi, dimenticandosi però che il mercato è composto da persone (e non da macchine) e che la stessa azienda è composta (ancora) da persone. Quindi avere un approccio più empatico e centrato sulle vere esigenze umane.
E a chi sta per entrare nel mondo del lavoro?
Di uscire subito perché quel mondo non esiste più. In futuro siamo tutti condannati al lavoro indipendente. Di essere creatori e non esecutori di lavoro. Di saper pensare e imparare autonomamente. Una volta si diceva: studia tenendo d’occhio gli sbocchi professionali. Sì, ma se tutto sfocia in un fiume prosciugato? La verità è che nessuna formazione garantisce più un’occupazione. Lavorare su se stessi in solitudine è la sfida di domani. E sopratutto bisogna ricordarsi che il lavoro oggi è solo concettuale, relazionale ed emozionale. Il resto lo fanno e faranno le macchine. O meglio siamo “limitati” a pensare, pianificare, decidere, controllare e produrre senso mentre al resto ci pensano (penseranno) i “sistemi”.
Che cosa dobbiamo fare per diventare l’anima intelligente delle macchine?
«Tanti si preoccupano di rendere la tecnologia più sofisticata, pochi di rendere gli umani più intelligenti» afferma Gerd Gigerenzer, un grande della psicologia cognitiva e direttore del Max Planck Institute for Human Development di Berlino. Ecco il punto. Le macchine promettono miracoli di intelligenza artificiale. Ma in verità quelli più dotati siamo noi, solo che lo abbiamo dimenticato. Alla crescita esponenziale delle performance tecnologiche bisogna abbinare una crescita esponenziale delle proprie performance individuali. Perché noi umani siamo più di quello che pensiamo. Si tratta di aggiornare il nostro sistema operativo cognitivo (e non quello dei device). Insomma innovare se stessi e mettersi al centro di ogni decisione.
Dovessimo farcela, in quale futuro ci ritroveremmo a vivere?
Il futuro è prima di tutto un atto volontario costruito su scenari desiderabili e non per forza (e forzatamente) probabili, come fatalità. Ci cascano un po’ tutti, politici compresi, ma invece non dobbiamo mai dimenticare che la tecnologia è
sempre strumentale, mai sostanziale. Le tecnologie formalizzano processi (e teorie dietro), gli umani sognano e creano nuove storie per l’umanità. Se siamo ancora capaci di farlo (volontà) allora il futuro sarà roseo, altrimenti sarà uno schifo.