Per la rubrica mensile Ideas for Managers, abbiamo intervistato Manuela Ronghi, Employer Branding Specialist in Würth Italia, con cui presentiamo cosa sia l’employer branding, una disciplina che accomuna il marketing e la comunicazione aziendale alle risorse umane.
Cosa si intende per Employer Branding e che obiettivi si pone?
L’Employer Branding è l’approccio marketing alle Risorse Umane che un professionista HR non può più ignorare, perché gli obiettivi che ci si pone riguardano la valorizzazione dell’azienda come luogo di lavoro ideale, per attrarre i profili più appetibili sul mercato e trattenere in azienda quelli più affini a cultura, valori e strategie aziendali.
Un esempio di iniziativa replicabile in tutti i contesti aziendali?
Un buon punto di partenza è coltivare un network di Ambassador tra i collaboratori: il racconto di chi in quell’azienda ci lavora ogni giorno è la testimonianza autentica che arriva “dal basso”, e che genera più valore. In generale, siamo tutti più inclini ad interagire con un contenuto quando proviene da una persona “come noi”.
Tra le sfide maggiori della professione quali sono le più ricorrenti?
La sfida più grande sull’Employer Branding oggi si gioca all’interno delle aziende, e riguarda la risposta alla domanda: “ma chi se ne occupa?”. Non può essere un’attività da gestire a compartimenti stagni, ed è determinante in questo senso la collaborazione tra colleghi che si occupano di Risorse Umane, Marketing e Comunicazione.
Come iniziare a fare Employer Branding sul serio?
Il primo passo è definire quella che viene chiamata Employee Value Proposition, ovvero gli elementi di un’azienda che contraddistinguono l’esperienza lavorativa percepita dai collaboratori e dai potenziali candidati. È il punto di partenza per declinare coerentemente contenuti e piano di comunicazione, in funzione degli obiettivi e del target. L’Employee Value Proposition, quindi, può essere valorizzata in maniera differente a seconda del profilo o del momento dell’esperienza che la persona sta vivendo, che sia candidato o collaboratore.
Quali sono i “ferri del mestiere” dello specialista?
Bisogna uscire dalla logica che lega il professionista HR ad una visione vintage delle Risorse Umane: oggi chi lavora con e per le persone all’interno di un’azienda deve possedere un set di competenze molto più complesso. Abbiamo detto che Employer Branding vuol dire collaborare con i colleghi del marketing: occorre quindi sentirsi a proprio agio se si parla di dati o strategie di digital marketing. Ulteriore valore aggiunto può derivare sicuramente dal lavorare con approccio agile, curiosità e intelligenza emotiva.
L’emergenza dovuta al Covid-19 ha comportato qualche cambiamento nello scenario?
Decisamente. L’emergenza sanitaria ha reso ancora più strategico il valore delle comunicazioni generate dai collaboratori, adesso i riflettori della scena sono passati dagli uffici alle case dei dipendenti. L’attrattività di un’azienda viene misurata da come questa tratta le proprie persone, con il coefficiente di difficoltà che – a causa del distanziamento sociale – c’è poca possibilità di intermediazione: tutto è immediato e trasparente.
Per concludere, l’Employer Branding è solo per le imprese più grandi o per tutte le realtà aziendali?
Non sono le dimensioni di un’azienda a determinare il successo di una strategia di Employer Branding, quanto la capacità di quell’organizzazione di posizionarsi sul mercato del lavoro attraverso uno storytelling coerente con i tempi che viviamo: meno filtri e più verità. Può sembrare una via coraggiosa da percorrere, ma se si approccia al tema con la giusta visione se ne può percepire l’efficacia, perché è con l’autenticità che stimoliamo e coinvolgiamo le persone, a prescindere che siano potenziali candidati o collaboratori.
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